Via via che ciò che era stata definita #bodypositivity si restringeva sempre più a sinonimo di una narrazione legata a corpi di donne bianche e con curve, un nuovo concetto ha cominciato a farsi largo tra chi, con spalle larghe, affronta il rapporto col proprio corpo: la #body neutrality; un modo di accettare il proprio corpo e quello degli altri eliminando il giudizio, davanti allo specchio e sui social media.

Iniziamo da un fatto. Nel 1967, l’autore statuinitense Lew Louderback pubblicò un saggio intitolato More people should be FAT sul Saturday Evening Post. L’articolo mirava a impadronirsi della parola grasso in un’epoca in cui il modello era già la magrezza e, destando non poco scalpore, ha dato il via a un gruppo di attivisti che aprirono una breccia verso l’accettazione positiva del proprio corpo, la #bodypositivity, appunto. Quel termine, in realtà, è apparso per la prima volta parecchi anni dopo, nel 1996, quando la psicoterapeuta Elizabeth Scott ha instituito thebodypositive.org con l’autrice Connie Sobczak, che aveva curato per un disturbo alimentare. E’ solo intorno al 2015 che il termine #bodyneutrality ha iniziato a circolare online: nel 2016 la specialista americana in disturbi alimentari Anne Poirier ha iniziato a tenere seminari sulla neutralità corporea, aiutando i partecipanti a pensare alle sembianze del proprio corpo nei diversi momenti della vita: il nostro corpo semplicemente evolve, muta, si adatta… vive ogni fase della nostra vita.

E’ stata la comunità I Weigh dell’attrice Jameela Jamil che ha contribuito a portare la body neutrality agli occhi del grande pubblico. Tutto ha avuto inizio da un post, per poi trasformarsi in un flusso social dove le persone potevano pubblicare immagini ed elencare i valori che andavano oltre al peso o all’aspetto. La creatività, la sensibilità, l’abilità di essere multitasking, o di essere generoso, un buon amico. Si attinge al femminismo, si racconta di donne anziane, queer, trasgender, omosessuali e persone con disabilità in grado di identificarsi con il proprio corpo con neutralità di giudizio: le persone non nascono odiando i loro corpi – ma a un certo punto il confronto con gli altri ci porta a giudicarci.

Accogliendo il corpo, ci si accorge di una verità lampante: è il mondo a doversi adattare alla nostra forma, non il contrario. Ogni anima, ogni energia, è raccolta in una forma, ed è quella forma a dare consistenza all’essere: come si può giudicarla inadeguata?

Ecco allora farsi strada pratiche come il cosiddetto “intuitive eating“, che funziona da antidoto ai regimi restrittivi e allontana la cultura della perdita di peso, ponendo al centro l’ ascolto dei segnali del corpo. Adottare il “consumo intuitivo” e un approccio neutro riguardo il nostro fisico significa innanzitutto rifiutare l’idea che per essere in salute occorra contare le calorie e fare esercizi forzati; poiché con l’intuitive eating non ci sono restrizioni su ciò che si può mangiare, non c’è vergogna o senso di colpa.

Anche l’esercizio fisico sta registrando, non senza sforzo, un cambiamento di reputazione: aumenta la consapevolezza dei suoi benefici per la salute mentale, oltre che fisica. Diverse, nuove, devono essere le ragioni da dare alle persone per muoversi. Una recente ricerca sull’attività fisica e il buon umore dell’Università del Michigan, pubblicata sul Journal of Happiness Studies, ha scoperto che le persone che si esercitano anche solo meno di 10 minuti al giorno sono più felici di quelle che non sono attive per niente: eccone una!

E’ così anche per la moda: è l’abito a vestire il corpo, non il contrario.

Il corpo è degno di centralizzare l’attenzione; non va mortificato, costretto, stipato, contenuto: il corpo va liberato.

E’ il grande valore aggiunto del fitwear, dello stile fitwear di #Viva: accogliere e assecondare un corpo che vive, che ha scelto la sua forma, che muta quella forma ogni volta che ne ha bisogno… che abita il mondo.

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